Presidente di AIDAI: «Iperattività e difficoltà d’attenzione, è bene intervenire subito»

AIDAI

L’ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder) o Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo, che include difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e delle attività. Il bambino non riesce a regolare il comportamento e non riesce a raggiungere gli obiettivi e le richieste quotidiane. L’ADHD non è una normale fase di crescita e nemmeno il risultato di una disciplina educativa inefficace, è un vero problema non solo per il bambino, ma anche per le persone che ha intorno. Abbiamo parlato di questo e molto altro con il dottor Michele Margheriti, neuropsicologo dell’età evolutiva, psicoterapeuta e presidente nazionale AIDAI (Associazione Italiana per i Disturbi di Attenzione e Iperattività).

Dottore, parliamo dell’associazione: di cosa si occupa? 

L’AIDAI nasce nel 1998 presso l’Università di Padova, per volere del professor Cesare Cornoldi. È organizzata su base regionale: oltre alla sede nazionale ci sono infatti le diverse sedi regionali presenti un po’ in tutta Italia. Il suo compito principale è quello di organizzare eventi, convegni e seminari per divulgare informazioni e buone pratiche per la gestione di questo tipo di difficoltà infantile. Si occupa anche di formare insegnanti, medici, psicologi, terapisti e a tutti coloro che lavorano in età evolutiva. L’AIDAI è un ente accreditato al Miur per cui i docenti possono accedere gratuitamente ai corsi. Un altro compito è quello di mettere in contatto le famiglie – molte ci scrivono per avere un aiuto sui percorsi da intraprendere – con le strutture che possono accogliere i bisogni dei loro bambini. Noi non eroghiamo direttamente attività cliniche, però abbiamo una rete che ci consente di fare da tramite tra le famiglie e strutture accreditate.

In Umbria c’è una sede?

AIDAI Umbria era una realtà che ha lavorato negli anni passati in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale per fare formazione, poi per molto tempo è stata silente. Oggi ha avuto una rifondazione, quindi esiste AIDAI Umbria con sede legale a Orvieto. L’obiettivo è quello di proporre iniziative di formazione per le scuole e fare qualcosa di concreto nel nostro territorio.

Come vengono individuati in un bambino i disturbi di attenzione e iperattività?

Il modo di accorgersene è legato soprattutto all’iperattività. Innanzitutto diciamo che tutti i bambini possono essere vivaci e stare particolarmente in movimento, ma i bambini con l’ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder) lo sono maggiormente. I primi campanelli d’allarme – specialmente per i maschi – sono una grande vivacità e un incessante movimento che rende difficile al piccolo intraprendere le attività di gioco che fanno i suoi coetanei.

Di che età parliamo? 

Parliamo di età prescolare. Un bambino di 3-4 anni con la ADHD è iperattivo, cioè presenta un’attività eccessiva ed è straordinariamente vivace, più di quanto sia normale attendersi da un bimbo di quell’età. Le prime persone che se ne accorgono, oltre ai genitori, sono le insegnanti. Il problema è che, molto spesso, questi campanelli d’allarme non vengono accolti, perché si crede che il bimbo sia solo vivace, pensando erroneamente che la crescita possa migliorare la situazione. Invece le cose non migliorano, perché quando comincia ad andare alla scuola primaria diventa ancora tutto più complicato.

Ci spieghi: per iperattività e impulsività cosa intende?

Per iperattività s’intende il continuo movimento, come se il bambino avesse un motore che non si ferma mai; mentre l’impulsività è il non saper aspettare nel fare ciò che vuole, il parlare addosso agli altri o pensare a una cosa e doverla fare subito senza riflette. La sua azione diventa convulsa e precipitata in ogni occasione. Un altro aspetto importante è che queste caratteristiche si manifestano in tutti i contesti quotidiani che il bambino vive.

Come ci si approccia?

I bambini con queste caratteristiche devono vivere in un contesto molto organizzato, in cui i tempi, gli spazi e il succedersi delle attività sono estremamente prevedibili, perché le situazioni nuove o impreviste non sono gestibili. C’è bisogno di un ambiente molto tranquillo e di persone e genitori che non danno in escandescenze: se il bimbo si agita e il genitore si agita ancora di più, diventa una spirale senza uscita. Per questo ci sono dei percorsi di parent training – allenamento del genitore – in cui si cerca di insegnare come agire in determinate circostanze. Per esempio, quando si va al supermercato: andare a fare la spesa con questi bambini può essere un’impresa abbastanza ardua; oppure al ristorante. Inoltre, si insegna a organizzare le giornate e a non essere estremamente punitivi. Poi c’è il lavoro da fare con i bambini: possono essere aiutati fin da piccoli attraverso dei percorsi basati sul corpo e sul movimento, percorsi di psicomotricità; con la crescita poi gli interventi si modificano, anche perché queste caratteristiche continuano a essere presenti anche da adulti.

Quindi sono disturbi che persistono anche crescendo?

Sì, anche se con l’adolescenza l’iperattività decresce notevolmente, ma passa in primo piano il problema della distraibilità, cioè del non riuscire ad ascoltare la spiegazione dell’insegnante; oppure non essere in grado di pianificare e organizzare le proprie attività: questo crea un pensiero svalutante nei confronti di sé stessi e possono insorgere la depressione o problemi emotivi. È bene quindi avere un sostegno anche in età adulta.

Tornando ai bambini, quanto è difficoltoso il rapporto con i coetanei?

È complesso e per loro non è facile fare amicizia. La loro impulsività crea difficoltà nelle relazioni perché, se vogliono un gioco, vanno e lo prendono, anche se è nelle mani di un altro bambino. Questo ovviamente non aiuta le relazioni. Inoltre, una buona parte ha anche caratteristiche che vengono definite oppositive-provocatorie, per cui sono difficili da gestire in un contesto sociale. Il disturbo di attenzione con iperattività e il disturbo oppositivo-provocatorio si presentano spesso insieme e quindi la gestione è impegnativa, questo porta spesso a punizioni e di conseguenza all’emarginazione.

 


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Un ruolo importante lo svolge anche l’ambiente scolastico: lì come si deve agire?

La scuola è l’ambiente più critico e non talvolta non è preparata. Non per colpa degli insegnanti sia ben chiaro, ma perché manca spesso la conoscenza di queste condizioni e questo, come dicevo, è il compito dell’AIDAI. Poi l’altro aspetto critico è che nelle nostre scuole, purtroppo, abbiamo una metodologia didattica spesso antiquata. Si privilegia essenzialmente la didattica frontale: l’insegnante spiega e i bambini o i ragazzi ascoltano, poi dopo vengono fatte le verifiche e le interrogazioni. Questa modalità è ovviamente il metodo meno adatto per i soggetti con ADHD, perché presuppone attenzione prolungata e star seduti per tanto tempo. Invece, una didattica di tipo laboratoriale, attiva, in cui i bambini si alzano, lavorano in gruppi e discutono, sarebbe molto più efficace. Sarebbe opportuno agire concretamente per promuovere un rinnovamento didattico nelle nostre scuole.

Quando è opportuno ricorrere a terapie farmacologiche?

Le terapie farmacologiche possono essere di grande aiuto e si attivano in età scolare. In Italia abbiamo reinserito dopo tanti anni i farmaci elettivi per la ADHD, come il metilfenidato, già conosciuto nei primi anni del ‘900. Però questi farmaci possono essere prescritti soltanto da strutture ad hoc, come i Centri Regionali di Riferimento per l’ADHD, che hanno un registro che fa capo all’Istituto Superiore di Sanità, in cui seguono e monitorano la prescrizione. Questa impostazione è giusta, perché impedisce un abuso di questi farmaci, come avviene ad esempio nei Paesi anglosassoni, ma ha determinato di fatto un uso molto limitato di questi farmaci, meno di quanto se ne avrebbe bisogno.

Perché?

Perché in Italia c’è una sospettosità molto forte nell’uso di questi farmaci, anche da parte degli stessi operatori sanitari. Sicuramente non vengono utilizzati come nei Paesi anglosassoni, ma possono essere molto utili, anche se ovviamente dipende dai casi. Il metilfenidato non cura, nel senso che non fa guarire dalla ADHD, ma aumenta le possibilità di attenzione e di concentrazione; ovviamente quando si sospende, il suo effetto svanisce.

Qual è la sua efficacia?

Il vantaggio è che, soprattutto nell’ambiente scolastico, si hanno dei miglioramenti: il bambino riesce a fare le cose che prima non riusciva a fare. Questo innesca in lui un meccanismo virtuoso per cui ha più autostima e fiducia in sé stesso; è un aspetto importante e quindi anche se non è un farmaco curativo porta delle ricadute favorevoli nella quotidianità. Non si prescrive mai in modo isolato, ma coadiuvato da una terapia multimodale che va a lavorare su diversi fronti. Il solo farmaco non va mai utilizzato.

L’aggressività è una caratteristica dell’ADHD?

Tra le caratteristiche non c’è l’aggressività. Un bambino con ADHD non è necessariamente aggressivo, può esserlo con l’adulto che rappresenta l’autorità e che gli fa fare cose che lui non vuole. In adolescenza questo atteggiamento è più marcato, perché è un momento molto delicato; già di per sé tutti gli adolescenti sono impulsivi, oppositivi al controllo e al dover fare le cose che l’adulto prescrive, nei giovani con ADHD queste caratteristiche sono ancora più marcate. Per questo è molto importante lavorare fin da piccoli con loro, in modo da non arrivare a 14-15-16 anni completamente sguarniti, perché poi i problemi possono diventare grossi.

Quindi non si può più intervenire?

È molto difficile perché l’adolescente non vuole l’intervento. Non si attribuisce una difficoltà, pensa che siano gli altri ad averla. Quindi occorre lavorare con pazienza con i genitori, perché il loro atteggiamento è decisivo e poi, quando è possibile, lavorare con i ragazzi.

In Umbria ci sono tanti di casi di ADHD?

Tantissimi. L’incidenza in media è del 2-5%. Se ci teniamo su un’incidenza prudenziale del 2,5%, dovrebbero essere poco meno di 3.000.

È in aumento rispetto agli anni passati?

Non ho dati certi. Gli insegnanti giurano che sono in aumento, però purtroppo non ci sono delle ricerche a largo raggio che dimostrino il trend. Le Regioni dovrebbero costituire degli osservatori epidemiologici, ma purtroppo questo non avviene.

 


Dott. Michele Margheriti

Neuropsicologo dell’età evolutiva e psicoterapeuta

È libero professionista, Presidente nazionale dell’AIDAI e insegna Psicologia dell’Educazione al Corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Perugia.

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