Non sapendo quando l’alba arriverà, tengo aperta ogni porta. (Emily Dickinson)
Di cosa è fatto un processo di resilienza? Da cosa è stata sostenuta la spinta a rinascere? L’elemento più importante è la possibilità di guardare oltre il presente e sperare.
Ma di quale speranza parliamo? Non certo di un’esortazione, né di una promessa di trascendenza. Parliamo di una trama sottile di pensieri, parole, azioni, presenze esterne capaci di sostenere una lucida consapevolezza e un quotidiano impegno.
La speranza che può supportarci non è quella ingenua, pura, impassibile e serena, quella delle scritte e degli arcobaleni per le quali andrà tutto bene. La speranza adulta ha attraversato la paura, il conflitto, il senso dell’abbandono, la confusione, i dubbi e le crisi, la precarietà, la sofferenza, la profonda incertezza del futuro, la stanchezza. E non è stata schiacciata dalla pietra tombale del realismo, non si è mascherata con uno stupido ottimismo evasivo e minimizzante. Non ha inquinato la lucidità delle scelte con una utopia esasperata, suscettibile di delusioni altrettanto totali.
Sperare è il motore della resilienza, un motore che possiamo tener acceso, pronti a innestare la marcia quando i contesti esterni sono favorevoli. Sperare è il contrario della passività, il contrario della rassegnazione. È fare progetti, aperti a ciò che accade sullo sfondo, continuare a tendere verso il futuro, anche nelle piccole speranze, anche punteggiate dalla delusione.
Non può limitarsi a essere una proiezione dei nostri desideri sul modo esterno, la speranza. Il mondo esterno non è Babbo Natale a cui mandiamo una letterina: resterebbe sospesa nel vuoto e senza fondamento, senza azioni possibili, perché ogni proiezione ci depotenzia e ci sottrae la consapevolezza di noi stessi e del mondo, ci sottrae l’energia per agire.
Speranza allora, non come impaziente anticipazione dell’avvenire, come anticipazione mentale di singoli eventi che appartengono al mondo esterno e alla illusione che i desideri possano realizzarsi, ma come apertura verso il tempo, tempo aperto che vive del futuro, dell’avvenire, e non si arena nelle immagini statiche e nell’inerzia del passato. Un’opzione attiva sul divenire e l’avvenire.
La speranza allora è la forza motivazionale intrinseca che può attivarsi in modo costruttivo nelle singole persone quando incontrano ambienti e relazioni facilitanti.
Nelle attuali condizioni di vita, sempre più faticosamente manteniamo una apparente normalità, e invece siamo sempre più distanti dall’Altro, sempre più chiusi nel privato, sempre più schiacciati dal quotidiano. Reimmettere speranza come nostalgia di un futuro: ecco il nostro nuovo compito come persone e professionisti che si occupano di sostenere gli altri.
Se il futuro scompare dagli orizzonti psicologici delle persone e delle collettività, allora è facile smarrirsi, è facile disperdersi e mollare. Ma se il futuro sembra svanito, se ha perduto i paradigmi già noti su cui poteva essere immaginato, allora bisogna fare lo sforzo di reinventarlo. Allora bisogna crearlo, evocarlo, coltivarlo anche a partire da piccolissimi semi. Anche se l’idea di futuro che possiamo realizzare è precaria, incerta, ne abbiamo comunque bisogno, come un ponte tibetano per attraversare il vuoto. Anche oscillando, anche tremando, per procedere passo dopo passo, avanti.