Lorenzo Mattioli: «Vi racconto la mia istruzione anomala»

In questo appuntamento, Lorenzo ci racconta la sua istruzione anomala, della generosità di un’insegnante, della visione illuminata di una preside. Esperienze che diventano la cifra di considerazioni sull’istruzione, sull’importanza delle relazioni e sulla lotta ai pregiudizi.

Lorenzo, ci racconti in che consiste questa anomala istruzione che hai avuto?

Già le elementari sono state particolari: a sette anni, quando avrei dovuto già essere in seconda, non avevo ancora iniziato la scuola. Ciò era dovuto anche al fatto che la mia famiglia non sapeva bene come fare: non potevano mandarmi a scuola perché correvo il rischio di contrarre l’influenza, l’unica malattia che, fino a due anni fa, costituiva il vero pericolo, per me. Non è una questione di deficit del sistema immunitario o di percentuali – le probabilità che ho di ammalarmi sono uguali a quelle di chiunque – ma di complicazioni. Se malauguratamente mi viene l’influenza, posso averla per i canonici quattro o cinque giorni, ma qualche volta si è complicata a tal punto da prolungarsi per uno o, addirittura, due mesi. Per questo evitavamo ogni occasione di contagio. Il caso volle che diventammo amici della famiglia di una compagna di liceo di mia sorella. Sua madre, che era maestra elementare, mi vedeva piuttosto attivo e, dopo essere stata messa a parte del pericolo che correvo nel frequentare la scuola, disse che bisognava trovare una soluzione. E così Silvana Piccioni – questo è il suo nome – si offrì di venire a casa mia per farmi lezione.

Ed è così che riuscisti a fare le elementari?

Non proprio. Silvana venne a casa mia per un paio di anni: la mattina insegnava a scuola e quando aveva qualche momento libero – ricordo il sabato mattina e qualche pomeriggio – si recava a casa mia per aiutarmi, in modo completamente disinteressato e gratuito. Siccome si rese conto che, pur non essendo andato a scuola, sapevo già leggere, propose di dare direttamente l’esame di ammissione alla seconda elementare, così da recuperare l’anno perso e riallinearmi con i bambini della mia età.

E come andò?

Lo superai. Da quel momento iniziò un percorso con delle maestre private che, avvicendandosi negli anni successivi, mi portarono fino alla quinta elementare. Le maestre non erano della scuola, ma venivano assunte con un contributo per l’istruzione assegnato dal Comune di Bettona. Eravamo noi però a scegliere la precettrice.

E le medie? Furono anomale anche quelle?

Alle medie la preside dell’Istituto comprensivo Bettona-Cannara, Paola Reali, che ora è in pensione, decise che dovevo in qualche modo integrarmi con la classe, anche se non potevo frequentare. Per tutta la durata delle elementari, infatti, non avevo mai conosciuto i miei compagni, avevo intrapreso il mio percorso di studi tutto da solo. L’unica volta che andai a scuola fu per dare l’esame di seconda elementare!

Insomma, la preside ebbe l’idea di mandare, almeno una volta a settimana, un gruppetto di compagni a casa mia, accompagnati dall’insegnante di sostegno. Usavano l’autobus della scuola! Una cosa del genere non era mai stata fatta: usare un mezzo scolastico per raggiungere un’abitazione privata come se si andasse in gita scolastica era una cosa inaudita e ha comportato anche il carico di una grossa responsabilità per la preside. Se qualcuno avesse segnalato la cosa prima che avesse il via libera dalle istituzioni, senza dubbio il progetto avrebbe potuto stroncarsi sul nascere o avere dei problemi. Poi la voce si è sparsa e la bontà di tale progetto è arrivata anche ai piani alti: è stato presentato anche al Ministero.

Ma per lo studio tout court continuasti ad avere insegnanti private?

Sì, anche alle medie continuai ad avere il sussidio garantito dal Fondo Istruzione del Comune: le insegnanti, prendendo i programmi dalla scuola, si recavano poi a casa mia per farmi delle lezioni private.

Quando i tuoi compagni venivano a casa, però, per te costitutiva un rischio. Venivano in qualche modo selezionati?

Assolutamente. Il progetto si svolgeva con molta più facilità dalla primavera alla tarda estate perché chiaramente non c’era l’influenza in circolazione. Al contrario nel periodo invernale veniva chiesto a tutti i ragazzi se avessero raffreddore, mal di gola, influenza. Quelli che ne avevano, non potevano venire.

E come si svolgevano questi pomeriggi a casa tua?

Quando i miei compagni venivano a casa facevamo una serie di attività scolastiche, ma con una propensione per quelle più artistiche: io e un altro paio di compagni eravamo molto bravi a disegnare. Per esempio, avevamo fatto un progetto stupendo che ancora conservo. Avevamo creato un raccoglitore gigante che parlava di noi, della nostra classe: c’erano le nostre foto, le notizie più importanti sui fatti accaduti negli anni in cui frequentavamo le medie, articoli di giornali. Ricordo che era il periodo dei primi casi di mucca pazza e dei successi di Luna Rossa, nonché di eventi sportivi importanti. Credo fossero i Mondiali di Francia del ’98. C’era poi una pagina tutta dedicata al Grande Fratello: era il primo anno, per noi era una cosa assurda perché non avevamo mai spiato qualcuno, per tutto il giorno, chiuso in una casa. Commentavamo i personaggi, davamo a ognuno degli aggettivi, ne discutevamo. Alla fine era sempre un modo per parlare di noi, dei nostri legami, delle nostre amicizie.

Ti ricordi altro?

Credo che avessimo creato una specie di capsula del tempo. Ognuno di noi aveva scritto dei segreti che, sigillati con della ceralacca, avrebbero potuto essere riletti dopo anni. Non so nemmeno se sarebbe possibile riaprirla oggi, perché con la nuova legge sulla Privacy sicuramente sorgerebbe qualche problema (ride, ndr).

E poi facevamo disegni, cartelloni per la scuola, tutte cose creative. Sicuramente si combatteva – ritagliando, incollando, colorando – quella noia di studiare che dopo un po’ per forza di cosa si faceva sentire.

Immagino che questo progetto di abbia permesso di stringere amicizie che andavano anche oltre l’orario scolastico. 

Sì, l’obiettivo della preside e dei professori era proprio questo: utilizzare questo momento per creare dei rapporti al di fuori. Con una ragazza, per esempio, è nata una grande amicizia, di quel tipo per cui ti racconti tutto e vivi quasi in simbiosi. Siamo amici tuttora, sebbene le scelte di vita ci abbiano portato a perderci per anni.

Possiamo quindi affermare che l’istruzione sia stata quasi marginale in questo progetto?

Senza dubbio. A parte qualche amichetto che avevo fin dall’infanzia, quei momenti di aggregazione erano diventati il fulcro della mia adolescenza. Paola Reali ha veramente precorso i tempi: ancora oggi la scuola fa fatica a essere inclusiva, quindi figurarsi come poteva essere vent’anni fa. La cosa fondamentale e di cui sarò sempre riconoscente è che, grazie a questa esperienza, ho potuto avere una preadolescenza completa. La socialità è importantissima, soprattutto a quell’età: si fanno delle esperienze, sia belle sia brutte, che però servono per crescere in maniera equilibrata.

Faccio un esempio. A differenza delle elementari, per brevissimi periodi – tipo gli ultimi 10 giorni dell’anno scolastico quando era molto caldo e non c’erano più le influenze – qualche mattina sono anche andato a scuola.

E come è stato?

È stato incredibile e bellissimo. E pensate: contando tutti i tre anni delle medie, non sarò andato a scuola nemmeno un mese, eppure sono riuscito a prendere una nota… perché chiacchieravo! (ride, ndr). Questa però è la classica esperienza che fa crescere: quel giorno io presi una nota e la cosa mi colpì a tal punto che ancora me lo ricordo! E, a proposito di esperienze: molti forse si aspetterebbero che io sia stato vittima di bullismo. Provate a pensarci: uno che va a scuola gli ultimi dieci giorni dell’anno, in carrozzina, senza i genitori che sempre lo accompagnano. E invece è successo proprio il contrario, anche se ora me ne vergogno: in due giorni diventai amico del bullo della scuola e nemmeno mi accontentai di fargli da tirapiedi. No, diventai praticamente il suo scagnozzo prediletto. Ora me ne dissocio però (ride). Non oso immaginare cosa sarebbe successo in un anno intero di scuola.

Quello che dici è emblematico: porta a riflettere sulla forza del pregiudizio e a quanto poco basterebbe per liberarsene. 

La cosa contro cui ho sempre lottato sono le categorie. Esse funzionano sia in senso negativo, sia positivo: si danno per scontati bisogni, carenze e necessità. È un vizio nel quale cado anche io, perché, anche senza cattiveria, giudicare viene quasi naturale. Quando si parla dei disabili, non è sbagliato dal punto di vista semantico del termine. Ma quando usiamo queste categorie lo facciamo in modo improprio, per caratterizzare e identificare; e allora ci sono gli alti, i bassi, i disabili, i buoni, i cattivi e così via. Ma dentro queste categorie ci sono le persone. E ogni persona è un universo a sé, impossibile da inquadrare in una categoria. Anche i disabili sono persone e come tali possono far soffrire, possono commettere crimini, possono sbagliare, hanno pregi e difetti come tutti gli esseri umani.

Quindi il fatto che un ragazzino vada a scuola per dieci giorni, prenda una nota e diventi amico del bullo non è sicuramente un motivo di vanto, ma dimostra come, da ragazzino di dieci anni, sia caduto in tutti gli errori e le mancanze di un qualsiasi ragazzino della sua età.


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